(la versione ‘diario day-by-day’ scritta mentre eravamo in viaggio la trovate sulla nostra pagina Facebook. Qui sul blog proviamo ad essere un po’ più posati e magari più utili per chi volesse replicare la nostra esperienza)
Eeeeeeeeed eccoci qui, di nuovo.
Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Day 9: Moab – Arches – Tropic
Sì, siamo venuti in questo angolo di mondo come sempre spinti dalla nostra passione cinematografica, il che non significa solo Monument Valley: esiste anche Arches.

Ad Arches (lo dico per chi non guarda ogni film prodotto ma magari ogni tanto esce)(pazzi che non siete altro) ci siamo andati perché è la casa di Indiana Jones e l’Ultima Crociata, ma se cercate ‘solo’ escursioni o panorami questo è decisamente il posto giusto: Il Double Arch e la Balanced Rock sono uno splendore, ma tutti i trails che portano agli archi sono un capolavoro. Come sempre le difficoltà e le lunghezze possono accontentare chiunque, ma il caldo non perdona: anche nelle uscite più brevi.
Passiamo talmente tanto tempo a girovagare nel parco e a parlare con altri viaggiatori (per la maggior parte americani) che siamo costretti a saltare sia il piano B che il piano C che avevamo per i due giorni a Moab: mi spiace Capitol Reef, mi spiace Escalante, sarà per la prossima volta.
Sulla strada per Tropic e il Bryce Canyon guidiamo per strade strane semiabbandonate: passiamo dal deserto al bosco nel giro di 300 metri, finiamo a mangiare in una specie di fattoria sul fiume gestita da due sorelle italiane (?!) che fanno marmellate e mi metto a immaginare un dialogo tipico tra un sedicenne autoctono e il padre (‘Pa’, mi porti a fare pratica di guida dove non c’è nessuno?’ ‘Ok, ti porto in autostrada’).
Tra pensieri e domande varie guidiamo un po’ a caso, finché non ci imbattiamo in un cartello.
Inchiodiamo (tanto la strada è deserta), inversione a U e sì, è vero: il sito è in via di finalizzazione, ma siamo comunque di fronte al tentativo di restauro della casa natale di Butch Cassidy. A volte, pure a noi arriva il supporto del Dio dei Viaggiatori.
Però.
Eh.
Però non so bene come gestire emotivamente la cosa: è come la visita ai covi di Pablo Escobar? O è come se facessero un monumento alla mafia? È solo questione di tempo trascorso o dipende dalla moralità? C’entra il sangue versato o è più importante l’atmosfera romantica?
Ci devo pensare.
Ma mentre ci penso ci siamo fermati: l’epopea del Mucchio Selvaggio non può essere ignorata e tutto parte da qui.
Più ci avviciniamo a Tropic e più il paesaggio di Bryce diventa preminente: i colori e le rocce sono le stesse che vediamo da dieci giorni, eppure ogni parco e ogni deserto attraversato ha trovato un modo diverso di utilizzarli. È pazzesco. Domani tocca Bryce.
Forse il viaggio ha ripreso la tabella di marcia.
‘Per un momento ho creduto che fossimo dei guai’.
Com’è Tropic? Come tutte le città in quest’area: inesistente.
Day 10: Tropic – Bryce Canyon – Page
Avevamo sentito di tutto su Bryce (il canyon, non l’antagonista di 13 Reasons Why), coprendo l’intero spettro delle opinioni: da ‘evitatelo’, ‘sopravvalutato’, ‘tremendo’ fino a ‘il miglior canyon mai visto’. Passando ovviamente per un grande classico: ‘a quel punto della vacanza non ne potrete più di canyon’.
A questo punto del viaggio ci era chiaro perché in tanti, nello stesso arco temporale, fosse in grado di infilarci anche San Francisco, la Death Valley e lo Yosemite: perché talvolta saltano i trails.
E per carità, liberissimi, io per prima apprezzo molto il fatto che se uno ha delle limitazioni fisiche (o è semplicemente stanco!) possa comunque godersi questi parchi tramite l’auto, però, ecco: qui non potete proprio limitarvi ad una foto dal Viewpoint.
Perché se il Bryce Canyon è impressionante dall’alto, dai trails è stupefacente.

Noi ne abbiamo fatti solo due (e un pezzettino): il Navajo Loop Trail, il Queen’s Garden Trail e un tratto del Rim Trail [tempo tiranno] e fin dal primo passo non abbiamo avuto dubbi. Se pensate di dedicare due ore distratte a questo parco, cambiate idea SU-BI-TO.
Riorganizzatevi, spostate qualche prenotazione, sacrificate qualcos’altro ma infilatevi le scarpe da hiking e lanciatevi alla scoperta di Bryce.
Bryce è un MUST.
Chiaro? NON SALTATELO.
Per altro il parco è l’apoteosi dell’organizzazione: se dormite in zona, potete evitare di spostare l’auto affidandomi alla navetta del parco. Se non avete cibo con voi, il Lodge fa al caso vostro.
Se avete cibo vostro, le piazzole di sosta abbondano.
Se andati matti per la fotografia, portatevi la batteria di riserva.
Se pensate di non essere abbastanza allenati, la mappa del parco vi segnala i sentieri più semplici (i nostri trails era classificati ‘moderate’, ma considerateli pure ‘easy’).
Se volete girarlo in bici, ci son più piste ciclabili qui che a Milano.
Smetto, ma potrei continuare per molto: non credo di conoscere una sola persona al mondo che non si innamorerebbe di questo parco, ognuno per la propria ragione.
Se la Monument era una passione dichiarata, Bryce ci ha rapiti senza preavviso.
Alla faccia di quelli che ‘non ne potrete più di canyon a quel punto’.
Day 11: Page – Antelope Canyon – Glen Dam – Lake Powell – Page
Ah, quanto era bello potermi ripetere nei giorni precedenti ‘dai, abbiamo già passato tutte le sfighe possibili, ora è tutto in discesa’.
Mannaggia a me e alla mia boccaccia.
Per raggiungere l’Antelope Canyon (uno qualunque, perché sì, sono diversi!) da Page si passa vicino a uno dei due complessi energetici della zona.
Il che genera una visione post-apocalittica: un immenso agglomerato industriale color antracite che sputa fumo in mezzo a una distesa desertica rosso ruggine.
‘Madonna, che visione, pare di stare in Mad Max’
‘Veramente. Manca giusto un po’ di polvere nell’aria’
‘Ahahah, ti immagini?!’
E mentre dicevo la cosa della polvere, nel cielo perfettamente azzurro si formava in lontananza un piccola, insignificante, innocua nuvola.
[…]
Arriviamo al punto d’incontro per la visita dell’Antelope con largo anticipo perché SONO ANSIOSA (e la Navajo Nation ‘sta pure un’ora avanti rispetto a Page, giusto per inquadrare l’umore di Andrea) e mentre consegnamo le liberatorie arriva una notifica sul cellulare della guida: sono previste inondazioni quindi la visita delle 11.30 potrebbe essere cancellata.
Andrea mi guarda già incazzato e io gioco in difesa:
‘No, senti, non può essere colpa mia, io ho menzionato solo la polvere, quindi vento, non pioggia’
‘Anticipiamo il tour, va’, e vediamo se ci salviamo dalla tua sfiga’
Partiamo col gruppo precedente a quello programmato mentre la guida ci informa che al secondo warning dovranno obbligatoriamente chiudere la visita e tutti a casa.
Per non so quale miracolo, le due gocce di pioggia che cadono durante la visita restano letteralmente due, coincidendo con le due peggiori occhiatacce che mi ha tirato Andrea. Nell’Antelope Canyon facciamo mille foto bellissime e in mezzo a quelle linee morbide e rosse mi sento come Ariel (soprattutto quando si lamenta del padre, altro grande punto in comune).

Stiamo per risalire e sono lì lì per cantare vittoria quando si alza il vento.
Tanto vento.
Tantissimo vento.
E per terra c’è polvere.
Tantissima polvere.
Gli occhiali da sole sono inutili, la bandana fa poco e noi siamo nel parcheggio che dobbiamo ritrovare a tentoni la nostra auto nel bel mezzo di una tempesta di sabbia.
Io, come missione secondaria, devo anche schivare gli insulti di Andrea, che però nella confusione del momento prende a insultare un’altra tipa.
Saliamo in auto consci di dover tornare a Page A BRACCIO, non solo privi di navigatore, ma anche del dono della vista.
Nel tragitto scopro che sì, con la polvere rossa nell’aria sembra davvero di stare in Mad Max; che i rotolacampo esistono davvero e son pure belli grossi e che se non mi zittisco immediatamente finisco sepolta dove nessuno mi troverà mai più.
Ora, sarà che non guidavo io, ma ho trovato la tempesta di sabbia una discreta figata. Non mi era mai successo, alla fine il deserto è anche questo e mi è sembrata una cosa molto autentica. Ma un’improvvisa voglia di vivere mi ha saggiamente trattenuto dal condividere questi pensieri con Andrea, impegnato a non andare farci ammazzare fuori strada..
Trovata a tentoni la strada dell’albergo e fatta una doccia, provo a rientrare nelle sue grazie:
‘Sul Lago Powell ci han girato sia Doctor Who che Westworld: se il tempo reg-‘
‘STAI ZITTA O TI LASCIO QUI’
Il resto della giornata è effettivamente andato molto bene: il fatto che abbia coinciso con il mio non poter aprir bocca è solo frutto del caso, ne sono certa.
Il Lake Powell è surreale: in pratica, qui han talmente tanti canyon che ad un certo punto si son detti ‘ok, questo o lo asfaltiamo tutto e ci facciamo un parcheggio oppure costruiamo una diga’. Han optato per la seconda solo perché spazio ce n’è (e perché l’opzione Vegas era già presa).

Vista così fa un po’ impressione (la cala delle barche fondamentalmente è una lunghissima colata di cemento che mangia un bordo del canyon), ma il lago è degno di nota.
Chissà Andrea cosa ne pensa.
‘Senti, ma s-‘
‘Ti ricordo che in Westworld qui è dove trovano dei cadaveri. Occhio a come ti esprimi che il luogo è propizio’
‘Beh, non erano umani, però…’
‘A giudicare dalla sfiga che porti, neanche tu’.
Se mi lascia, non è per una più bella, intelligente o affettuosa: sarà solo per avere una ragazza muta. Come Ariel, per altro.
Day 12: Page – Horseshoe Bend – Zion National Park – Grafton – St. George
Vabbè, è ora di dirlo: Page è di una bruttezza quasi stupefacente, ma è circondata di robe fighe da fare.
Lasciandola ci siamo dedicati a una cosa che per ora è gratuita, ma a brevissimo (a giudicare dall’avanzamento dei lavori) farà parte della vicina Recreational Area della Diga di Glen: l’Horseshoe Bend.

Una roba talmente incredibile che, se non esistesse in natura, non potresti mai mettere in un film perché risulterebbe poco realistica.
Il verde dell’acqua e il rosso delle pareti del canyon sono un accostamento perfetto e indimenticabile. Graziati dal non aver trovato tanta gente, vi suggerisco comunque di prestare grande attenzione perché al momento non ci sono grandi recinzioni e le persone sono distratte da quello che vedono, quindi abbiamo sfiorato la strage per un soffio (non scherzo, eravamo sul bordo e un tizio non ha visto che ci stavamo spostando e ha indietreggiato rischiando di essere buttato di sotto. 10 centimetri di differenza e ora avremmo un ragazzo sulla coscienza).
Speriamo di lasciarci i nuvoloni alle spalle, ma ci seguono fino allo Zion.
Ecco, lo Zion sarà un po’ un mezzo rimpianto: la Mt Carmel Highway è bella anche con la pioggia, ma in primavera ed estate il resto del parco si può visitare solo con lo shuttle gratuito. Se alla limitata indipendenza (resto comunque super a favore delle navette, sia chiaro) si aggiunge un tempo non eccezionale, il risultato è: niente Emerald Pools. Ogni volta – OGNI VOLTA – che punto a un momento romantico, qualcosa me lo distrugge.
Lo Zion è comunque un parco più facilmente raggiungibile di altri, quindi chissà…
Per tirarci su abbiamo optato per una piccola ghost town fuori dalle rotte più battute (che poi finiscono per far perdere autenticità ai resti di queste città abbandonate): talmente fuori rotta che non ci sono cartelli ufficiali, ma solo un paio di pezzi di legno orientati un’unica direzione con spennellata sopra la scritta GRAFTON (potete però fidarvi di Waze che conosce la stradina bianca e ve la indica correttamente: vi basterà andare piano altrimenti la perdete).
Capisco che non sia la maggior attrazione del mondo, ma da un paese che considera storiche anche alcune costruzioni degli anni ‘80 e ci lucra elegantemente sopra (stima!), mi aspettavo un paio di aiutini in più. Però ripeto: negli Stati Uniti Waze è il vostro miglior amico.
La strada è fangosa quindi accostiamo (dove? In mezzo al nulla, con Andrea che dice anche ‘aspetta, parcheggio meglio così non do fastidio. MA A CHI?!?!) e proseguiamo a piedi.
Grafton è stata una ridente (?) cittadina che ha combattuto contro diverse tribù indiane (soprattutto Navajo), finché l’ambiente non è diventato troppo ostile e ha spinto la popolazione una manciata di km più in là, a Hurricane. A chi non vorrebbe voglia di salvarsi dalla crudeltà della natura rifugiandosi in un posto che si chiama Hurricane, del resto (??).
Passato qualche anno, ha avuto una seconda occasione come set cinematografico del film Butch Cassidy and The Sundance Kid (ancora? Sì, ancora), per poi ripiombare nel dimenticatoio.
Ora è lì, in attesa di essere riscoperta. Da noi, tipo.
Gli edifici che si sono salvati sono CINQUE: quattro case e la chiesa/scuola.

Pare di stare ne ‘La Casa nella Prateria’, è rimasto perfino un carretto che fa molto Charles Ingalls e se ti avvicini troppo gli edifici si trasformano in un agglomerato di scricchiolii legnosi e versi di animali acquattati tra le assi. Tutto molto bello, ma visto che si tratta soprattutto di topi (non che ne abbia visti, ma FIDATEVI, conosco quegli squittii), morire per una malattia qualunque tra leptospirosi, peste, colera e tifo murino è troppo retró anche per me.
Vicino c’è il cimitero (vi aspettavate una scampagnata tutta risate e allegria?) dove le lapidi mi ricordano che oltre alle malattie citate, c’era pure la difterite a cui prestare attenzione. E le cadute da cavallo. E i Navajo incazzati.
Forse questa è una di quelle cose che si apprezzano solo se si è superfanatici di questo mondo, ma è stato un pomeriggio davvero istruttivo e strano.
E strano è bello.
Con questo capitolo finiamo ufficialmente i canyon.
Si torna nella civiltà. Anche se questa civiltà si chiama Las Vegas.
Per fortuna abbiamo ancora qualche chicca in serbo…

Hai perfettamente ragione sul Bryce Canion…che stupenda meraviglia!
e GRAZIE per avermi insegnato la parola “rotolacampo” così non dovrò più usare parafrasi per esprimerla 😀
sempre super i tuoi racconti!
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Imparata all’università nelle lezioni di cinema, ahahah. Bryce ancora oggi nel cuore.
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