INDONESIA – diario di viaggio: seconda parte

Qui la prima parte.

Day 4: Ubud, Bali

La regola non scritta per cui ‘la serenità si misura in sticazzi per unità di tempo’ (cit.) l’hanno inventata a Bali.
Ci scommetto.

Arrivati all’aeroporto veniamo accolti letteralmente da una selva di bandiere rosse. Chiediamo al taxista che ci dice che in questi giorni c’è il congresso di non ho ben capito cosa, chiosando con un ‘non vi spiego bene perché tanto la politica è complicata ovunque, vero? Anche da voi?’.

Io e Andrea ci guardiamo balbettando un ‘ma sì, infatti’, quando in realtà vorremmo solo chiedere come si dice ‘italica banda di coglioni’ in balinese, per aver anche noi qualcosa da dire sul nostro governo che giusto in quelle ore decideva di cadere dopo un’estate passata al Papeete.

Da qui in poi ogni cosa viene dilatata: ci mettiamo 2 ore per fare ‘un pranzetto veloce’, 4 ore per un ‘giretto rapido del centro di Ubud’ e quasi 3 ore per ‘una cenetta leggera’.

Ci avventuriamo per Ubud che ci accoglie subito con il Puri Saren Agung, la residenza reale: la sera il palazzo di anima e vi accoglierà sempre con suoni, canti e danze locali. Di sicuro da queste parti non ci si annoia!

A brevissima distanza troviamo anche il Saraswati, un incantevole tempio sull’acqua. Purtroppo siamo arrivati quando era chiuso, ma per entrare basta essere decorosamente vestiti: munitevi di sarong e il gioco è fatto. Nessuna richiesta, invece, per il giardino e le vasche esterne.

Il resto della città a portata di passeggiata è piena di mercati, locali e ‘agenzie’ pronte a fornirvi qualunque servizio vi venga in mente. Buttatevi: sono tutti gentili e affidabili (ma contrattate come se ne andasse della vostra vita!)

Day 5: Ubud, Bali

Nuovo giorno, nuova levataccia in vista di una giornata campale. Qui mi tocca andare per punti.

Non abbiamo optato per un motorino perché al momento non ci sentivamo ancora pronti per fare tutti i km della giornata, ma uno dei ragazzi dell’hotel deve stavamo ci ha fatto gentilmente da driver e guida per l’intera giornata.

Siamo partiti con la risaia a terrazze di Tegallalang: noi abbiamo evitato come la peste la roba che urlava ‘Instagrammami’ tipo le altalene (ma davvero fate?!), ma il resto è pazzesco. Sembra una cazzata, lo so, ma i terrazzamenti son interessanti ed affascinanti! Ogni cambio di proprietà tra i vari cambi di diverse proprietà richiede un’offerta libera, ma il cambio con la rupia è super favorevole (nonostante io mi sia sentita tutto il tempo come se fossi una comparsa di Narcos piena di contanti, il cambio continuava a sostenere che tutti i miei miliardi di banconote erano poco più di 10euro).

A 10 minuti di auto c’è il Tirta Empul: uno dei templi più belli che abbiamo visto e su cui puntavo molto perché volevo assistere al rito induista di purificazione con l’acqua. Il tempio è ancora in funzione, quindi no problem per il rito, e noi ci siamo pure capitati di domenica, quando c’era credo tutta l’Indonesia a farsi purificare. Ed è stato bellissimo.
Unico neo: il rito è aperto anche ai turisti.
Ora, io non sono particolarmente religiosa, ma capisco quando un mio atteggiamento possa risultare inviso a chi crede e continuo a credere che partecipare ad un evento sacro solo per folklore o perché ‘fa figo’ sia una gravissima mancanza di rispetto. Poi chiaro, ognuno faccia un po’ come vuole.

Proseguiamo verso la Grotta dell’Elefante o Goa Gajah: l’elemento più famoso qui è la grande bocca del dio indù Bhoma che funge da accesso alla grotte, come fosse un passaggio mistico ad un mondo sotterraneo e magico.. Come al Tirta Empul, anche qui sono presenti due grandi vasche di purificazione e anche qui per accedervi vi servirà il sarong che vi daranno all’ingresso.

L’acqua sacra di Tirta Empul

Chiudiamo la giornata in maniera più leggera: scopriamo le coltivazioni di Kopi Luwak, cioè il caffè prodotto con bacche semidigerite dallo zibetto delle palme, e quelle di tè. Il Kopi Luwak pare essere il caffè più costoso del mondo, immagino per il peculiare metodo di ‘produzione’, ma potete evitarlo e testare i vari tipi di tè,c he meritano decisamente il vostro tempo.

Stanchi morti, ci dirigiamo verso le Cascate Tegenungan, dove perfino la nostra guida, esausta, ci chiede se ci può aspettare in auto. In fondo non ci serve una spiegazione per la cascata, quindi no problem. L’integrazione tra popolazione e natura da queste parti è davvero memorabile e un posticino così a fine giornata ci stava proprio.

Day 6: Ubud, Bali

Se voglio diventare una vera adepta di Ganesha devo imparare a cucinare come i locals, visto che questa è una divinità buongustaia che non disdegna offerte di cibo (nella mano sinistra spesso ha un piatto di dolci)(dolci, capite?! DOLCI! Poi uno dice che empatizza).

Ingredienti della cucina balinese

Ci iscriviamo quindi a una scuola di cucina che come prima cosa ci porta al mercato locale, ci spiega alcuni frutti di base che non trovo al mercato di Isola (almeno credo, non so, voi l’avete mai trovato il Jackfruit? Se sì, ditemi in che bancarella, sono interessatissima) e poi ci insegna come intrecciare quei piccoli cestini di bambù da riempire di offerte (i Canang Sari)

La lezione di cucina è divertente: identifichiamo un sacco di sapori che abbiamo provato nei giorni scorsi e sui quali avevamo dei dubbi, impariamo a fare il riso e altri NOVE piatti locali e ci vengono perfino lasciate le ricette.

Certo, ora devo capire dove trovare le foglie di banano ed eventualmente con cosa sostituirle, ma insomma, qualcosa ci inventeremo.

Dopo mille templi rallentare un pochino è piacevole, ma soprattutto torneremo a casa con molto di più un banale souvenir.

Per gli inviti a cena c’è sempre da aspettare che troviamo casa (ormai uso questa scusa per tutto, lo so, chissà come farò poi se mai la troveremo, mi toccherà INIZIARE A FARE COSE)

Day 7: Canguu, Bali

Siamo a pezzi quindi decidiamo di andare un po’ al mare, approfittando del fatto che un po’ di amici sono in zona Canguu.

Tanto da Ubud son 23km, chessarammaisantiddio, prendiamo un motorino: abbiamo guidato in Scozia per settimane sui passing place larghi meno di un’auto, ‘na ventina di Km con lo scooter non son niente.

Risultato? UN’ORA E VENTI solo per l’andata.
Perché i Balinesi sono MATTI. Ma matti veri.
Io capisco che tu mi faccia il pelo per, chessò, rubarmi l’orologio, il cellulare, lo zaino, QUALCOSA.
Ma farlo così, per il gusto di farlo, no, cazzo.

No.

Ma stai più in là, ma cosa vuoi.

Canguu, comunque, grande meta di surf e se c’è tutta ‘sta gente presumo che le onde siano fighe, ma non troppo complicate visto che ci son diverse scuole di surf sulla spiaggia.

Spiaggia che, ecco, magari si meriterebbe un pelo di attenzione in più, però abbiamo visto un gruppetto di Clean Ocean Project il che mi sembra UN OTTIMO inizio.

Ma la cosa veramente degna di nota è che il viaggio di ritorno è durato solo 50 minuti: mi fan male ossa, muscoli e cartilagini compresi tra spalle e ginocchia, ma Andrea guida già come un vero Balinese.

Day 8: Ubud, Bali

Se c’è un animale (e c’è) che mi terrorizza fino alla paralisi, quell’animale è la mucca. 
Lo stazza, lo sguardo vuoto, l’imprevedibilità… no, non mi è mai successo nulla di male, ma con quegli occhi vacui non posso certo escluderlo a priori.

Il secondo animale è entrato a far parte della classifica dopo questa giornata ed è la scimmia.
Non avrà lo sguardo vuoto, ma ha dei canini spaventosi.
Sull’imprevedibilità, invece, stiamo messi pure peggio: il serpente sibila, il cane ringhia, la mucca… boh, un po’ si agita immagino (ma chi è che si avvicina così tanto a quella BESTIA?!?!).
La scimmia no.
La scimmia un secondo non la vedi perché si fa gli affari suoi su un albero 80m sopra la tua testa e il secondo dopo te la trovi aggrappata alla schiena che ti ravana nello zaino. #TrueStory

Tutto questo per dire che l’ho evitata fino all’ultimo, ma a ‘na certa mi è toccata: parlo della Monkey Forest.

Il Tempio all’interno della Monkey Forest

La foresta-santuario è meravigliosa, anche se ti servono le branchie per entrare (umidità: 136%): ci sono templi, fiumi, liane, ficus alti 30metri… davvero incantevole.

E poi ci sono loro.
LORO.

All’ingresso c’è l’elenco (non esaustivo) delle cose da non fare: non toccarle, non guardarle negli occhi, non andare in giro con elementi penzolanti (reflex, cappellini, occhiali, cose che sporgono dagli zaini), non portare né dare cibo, non urlare se ti saltano addosso 

(‘Andrea, in che senso mi saltano addosso?’ 

‘Ma è un modo di dire, tranquilla’ 

‘È un modo di dire per dire cosa?’ 

‘Ehm…’).

non istigarle, non lanciare oggetti, non fare movimenti inconsulti, NON VIVERE.

Cioè, stavo a casa allora.

Vabbè, iniziamo: sembra andare tutto bene, è pure pieno di cucciolini di scimmia. Carini. Dolci. Simpatici, quasi.

Ma ho visto troppi film di MOSTRI per dimenticarmi le due regole fondamentali:

  1. se una bestia è pucciosa, probabilmente proverà ad ucciderti quando hai le difese abbassate 
  2. se c’è un cucciolo di bestia apparentemente innocuo, vicino c’è la relativa madre, grossa 4 volte e incazzata a morte.

Presente Aliens? Godzilla? Ecco.

Stavo giusto giusto pensando che forse ero esagerata quando una baby scimmietta per giocare si è aggrappata alla borraccia che usciva dallo zaino del tizio americano vicino a me. Tempo due secondi e addosso a lui c’erano quelli che immagino fossero i genitori della scimmietta o comunque dei parenti fortemente incazzati convinti che l’americano stesse malmenando/uccidendo/rapendo il loro erede.

E parlo di COSI più grossi di uno zainone di 50 litri. Il resto credo di averlo visitato in trance: Andrea ha delle foto bellissime che io porterò alla mia terapista, perché in effetti la sindrome da stress post-traumatico mi mancava.

E pensare che nel Pianeta delle Scimmie tifavo per voi.

Stronze.

Scimmie

2 risposte a "INDONESIA – diario di viaggio: seconda parte"

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